COSTRUIRE UNA COMUNITÀ EDUCANTE: ECCO LA SFIDA PER I COMUNICATORI
Un adolescente su 7 pensa che controllare la propria partner è segno d’amore. Più del 50% dei giovani tra i 14 e i 15 anni ritiene che baciare qualcuno senza il suo consenso non sia una forma di violenza. Se questi sono i dati di partenza, tratti dall’indagine TEEN di Fondazione Libellula, non è difficile credere che il 43% degli uomini pensa che la violenza di genere non sia un fenomeno che li riguarda.
Questa evidenza è quella da cui sono partiti oggi gli ospiti della tavola rotonda “Una risposta collettiva alla violenza di genere: la comunità educante” a cui hanno partecipato Alessia Dulbecco, scrittrice e pedagogista, Stefano Pagliarini, giornalista, Debora Moretti, founder di Fondazione Libellula e moderata da Flavia Brevi, all’interno del festival della genitorialità no filter Ensemble, organizzato a Milano da Anna Acquistapace, founder del podcast Grembo.
Un momento di riflessione per tutta la comunità dei comunicatori, a cui i relatori hanno rivolto un appello, verso una responsabilità più consapevole di chi comunica.
«Serve ripensare il concetto di “genitorialità” come responsabile dell’educazione di bambini e bambine: questo compito fondamentale non è più delegabile solo a genitori, famiglia e scuola- incalza Flavia Brevi, responsabile della comunicazione di Fondazione Libellula-; i media hanno un enorme responsabilità perché oggi sono facilmente accessibili a tutti e fin da età prescolare e hanno allargato i confini della comunità educante. Abbiamo una responsabilità collettiva nei confronti delle nuove generazioni, la loro educazione non è in mano solo ai genitori o alla scuola».
Alla base di questa nuova visione ci sono i dati sempre più chiari che riguardano la fruizione dei social media e delle fonti digitali di informazione in generale da parte degli adolescenti, ma anche di bambini e bambine durante l’infanzia. In particolare, le ultime analisi che arrivano dagli Stati Uniti, hanno già da qualche mese sollevato l’allarme sull’impatto che i social media hanno sulla salute mentale degli adolescenti.
Il Surgeon General degli Stati Uniti, che è il capo operativo del Corpo incaricato del servizio sanitario pubblico e il principale portavoce in materia di salute pubblica del governo federale, ha divulgato qualche mese fa numeri allarmanti: un terzo o più delle ragazze di età compresa tra 11 e 15 anni afferma di sentirsi "dipendente" da determinate piattaforme di social media e oltre la metà degli adolescenti riferisce che sarebbe difficile rinunciare ai social media.
Alla domanda sull'impatto dei social media sulla propria immagine corporea, il 46% degli adolescenti di età compresa tra 13 e 17 anni ha affermato che i social media li fanno sentire peggio, il 40% ha detto che non li fa sentire né meglio né peggio, e solo il 14% ha detto che li fa sentire meglio. Inoltre, il 64% degli adolescenti è "spesso" o "a volte" esposto a contenuti basati sull'odio attraverso i social media.
Altre analisi rivelano che dal 2010 i tassi di malattie mentali adolescenziali come ansia e depressione si sono impennati. Dal 2020, complice la pandemia, i ricoveri in pronto soccorso per atti di autolesionismo è aumentato in Italia del 188% tra le adolescenti e del 48% tra i coetanei maschi. Allo stesso tempo aumentano le segnalazioni riguardanti malesseri e stati di ansia anche nei gradi di istruzione scolastica più avanzati, che segnalano una frattura con le istituzioni scolastiche che si allarga sempre di più: secondo gli ultimi dati due milioni di adolescenti tra i 10 e i 20 anni manifestano disagi mentali, il 75% denuncia di avere spesso episodi di ansia causati dalla scuola, il 67% ha paura di voti e giudizi e il 34% vorrebbe fuggire dalla scuola.
«Sono dati che non possono lasciarci indifferenti- incalza Flavia Brevi e che non possono servire solo a fare analisi di mercato, ma devono stimolarci a chiederci quali cambiamenti siano necessari per invertire la rotta. Non si tratta solo di limitare l’abuso delle piattaforme, ma di riprogettarne insieme con responsabilità i contenuti. Questo significa ripensare la comunità educante, andando oltre famiglia e scuola e inserendo in questo ruolo i media, che hanno pari importanza proprio perché oggi sono accessibili anche nell’infanzia e nell’adolescenza. Questo vuol dire che chi si occupa di comunicazione, anche sul digitale, ha una responsabilità che fin qui è stata attribuita in maniera chiara solo ai giornalisti. Social media manager, content creator, strategist e operatori del digitale in generale oggi sono a pieno titolo degli educatori e bisogna dirlo chiaramente. Chi si occupa di comunicazione deve svolgere la professione nella consapevolezza del proprio ruolo e della propria responsabilità».